Ieri Berlino ha celebrato il trentennale della caduta del muro. Ho girato per la città affidandomi al caso e ne è venuto fuori un mini tour quasi sensato.

Tanti anni fa ricevetti in regalo una copia di Cime tempestose. Era il tempo dei musi lunghi, della solitudine, delle farfalle allo stomaco, del rifiuto di indossare occhiali da vista, delle ore spese a fissare soffitti immaginando storie emozionanti di cui ero l’indiscussa eroina.

In Bosnia Erzegovina, nella cittadina di Višegrad, non lontana dal confine sud-orientale con la Serbia, c’è un maestoso ponte di pietra che attraversa le verdi acque del fiume Drina.

Quest’anno Berlino celebra i 250 anni dalla nascita di Alexander von Humboldt. Chi mi segue da un po’ forse sa del mio interesse per il grande scienziato, esploratore e naturalista tedesco, di cui tempo fa lessi la biografia. Volendo rendergli omaggio, sono andata a fargli visita in un piovoso pomeriggio di metà luglio1.

Un alto muro sormontato da filo spinato cinge la prigione di Hohenschönhausen, fino al 1990 luogo di detenzione preventiva della Stasi, la polizia segreta della Germania Est.

“Non ho mai scritto una parola che non provenisse dal mio cuore. E mai lo farò” affermò Nellie Bly, la giornalista americana che sul finire dell’Ottocento scosse dal torpore il mondo della carta stampata con le sue inchieste sotto copertura e divenne famosa per il rocambolesco giro del mondo in meno di ottanta giorni.

Certi cognomi sono pesanti, gravati da aspettative e ambizioni altrui che sembrano sancire il destino di chi li porta ancora prima della nascita. Confini invisibili tracciati dalla società, ripresi dalla famiglia e rinforzati dall’ingannevole percezione della propria importanza indirizzano uomini e donne verso destini ineluttabili.