Di recente ho letto Storia del camminare di Rebecca Solnit, un libro uscito nel 2000 e ripubblicato da Ponte alle Grazie nel 2018, tradotto da Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini. Ecco perché giorni fa, percorrendo a piedi le strade della mia città, pensavo a una frase trovata nell’introduzione: “Ogni persona che cammina è una guardia di pattuglia a protezione dell’ineffabile”.
Non abbiamo una macchina. A Berlino non serve. I mezzi pubblici funzionano bene. Fortunatamente, per ora, anche le mie gambe. Le gambe — sempre siano ringraziate — mi portano dappertutto. A volte il loro ritmo si accompagna alle parole di un podcast o alle note di una canzone, altre solo al respiro e ai rumori della città.
Rifletto spesso su come mi relaziono allo spazio urbano (soprattutto in quanto donna) e mi sono resa conto che il mio andare a piedi non è solo un modo per sopperire alle necessità della vita quotidiana. Si è trasformato in un’azione deliberata e perentoria.
Solnit è una delle voci più autorevoli del nostro tempo e si occupa di femminismo, ambiente, storia, politica e arte. Vive in California e ha all’attivo molti libri. Storia del camminare1 ripercorre la storia del camminare come atto culturale consapevole, dalla sua nascita — due secoli fa con Jean-Jacques Rousseau — fino ai giorni nostri, soffermandosi sugli scrittori, i filosofi e gli intellettuali per i quali camminare fu una parte imprescindibile delle loro esistenze e del loro pensiero.
Ciò che mi affascina di questa storia è il suo essere multidisciplinare — un dicorso sul camminare comprende gli aspetti anatomici, antropologici, religiosi, sessuali, letterari, storici e così via — e il fatto che, essendo legata all’esperienza individuale, è “virtualmente infinita”. E la storia del camminare di Solnit, seppure “amatoriale” e “parziale”, come la definisce lei, è densa, puntuale e generosa. E dal mio punto di vista completa.
Ho trovato molto interessanti le sue riflessioni sull’erosione dello spazio, della mente e dei corpi, in “un mondo che non è più su scala umana”, ma a misura di macchine (un fenomeno particolarmente evidente negli Stati Uniti, dove i piani urbani e suburbani prendono scarsamente in considerazione i pedoni), e sulle conseguenze della privatizzazione dello spazio. Con il diminuire dei luoghi dove radunarsi vengono meno le possibilità democratiche di riunione in pubblico.
Ecco, quindi, che l’atto di camminare non può essere ridotto a un semplice passatempo. È un atto politico, una forma di resistenza all’erosione di cui sopra (che è poi, appunto, anche erosione delle nostre possibilità democratiche); è il prendersi del tempo per pensare assecondando il ritmo dei passi, non quello veloce della società in cui siamo immersi; è il ricominciare ad abitare i luoghi pubblici, a sentirci parte della comunità.
Per noi donne camminare ha poi un significato ancora più profondo. In passato la nostra libertà di movimento è stata limitata da leggi, costumi sociali e pericoli reali (pericoli che limitano tutt’oggi molte di noi). Camminando, riconquistiamo lo spazio. E non solo quello, direi.
Quando ci concediamo ai luoghi, essi ci restituiscono a noi stessi e, più arriviamo a conoscerli, più vi seminiamo l’invisibile messe delle memorie e delle associazioni che saranno lì ad aspettarci quando ritorneremo, mentre luoghi nuovi ci offriranno pensieri nuovi e nuove opportunità. Esplorare il mondo è uno dei modi migliori per indagare la mente, e il camminare percorre entrambi i terreni.
Storia del camminare, Rebecca Solnit
Risorse
Nella parte intitolata Dal giardino all’incolto, Solnit racconta di William Wordsworth e di sua sorella Dorothy, con la quale lo scrittore intraprendeva molte delle sue camminate. Su The Project Gutenberg puoi leggere i diari di Dorothy. Qui sotto trovi una bella intervista di Emma Watson a Rebecca Solnit.
- Il titolo originale dell’opera è Wanderlust. A History of Walking. In Italia è stato pubblicato la prima volta nel 2002 da Paravia Bruno Mondadori Editore.[↩]