In Bosnia Erzegovina, nella cittadina di Višegrad, non lontana dal confine sud-orientale con la Serbia, c’è un maestoso ponte di pietra che attraversa le verdi acque del fiume Drina. Simbolo di unione e sofferenza, è l’anello di congiunzione tra la Bosnia, la Serbia e il resto dell’impero turco, tra l’Oriente e l’Occidente. Višegrad e i suoi abitanti ne condividono il destino.

Il ponte sulla Drina, libro Oscar Mondadori, copertina

A immortalarlo è stato un romanzo pubblicato nel 1945: Il ponte sulla Drina. L’autore, Ivo Andrić (1892-1975), vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1961, attraverso la storia del ponte, protagonista dell’opera, racconta quella del popolo bosniaco dal XVI secolo fino allo scoppio della Prima guerra mondiale.

Una cosa comunque è certa, tra la vita degli abitanti della kasaba e il ponte esiste da secoli un legame stretto. I loro destini sono intrecciati e non si possono né immaginare né spiegare separati. La storia della nascita e delle vicende del ponte è nello stesso tempo la storia della kasaba e dei suoi abitanti, generazione dopo generazione, allo stesso modo in cui, in tutti i racconti che parlano della città, si profila la sagoma slanciata del suo ponte di pietra dagli undici archi, con la kapija al centro come una corona.

Un ponte eterno e indistruttibile

Costruito nella seconda metà del ‘500 per volere del visir Mehmed Paša Sokolović (1505-1579), collega la kasaba — il centro storico — al sobborgo che si affaccia sulla strada per Sarajevo.

Con la sua kapija, il balcone centrale formato da due terrazze, è stato per secoli il cuore pulsante di Višegrad, città in cui convivono persone di etnia e religione diverse: cristiani ortodossi, cattolici, ebrei, musulmani. I musulmani popolano la kasaba, i cristiani vivono sulla sponda opposta, nel sobborgo. Il ponte li unisce, perché è di tutti.

Non si può certo dire, però, che la grandiosa opera commissionata dal visir Mehmed Paša nel tentativo di lenire un dolore mai del tutto scomparso — la prematura e forzata separazione da Višegrad e dalla sua famiglia per entrare a far parte del corpo dei giannizzeri della Grande Porta — sia nata sotto buoni auspici. Sangue e sofferenza segnano i cinque anni della sua costruzione. E anche i successivi.

Nonostante questo, a opera finita, i visegradesi dimenticano tutto, travolti da un sentimento più grande che nasce dalla consapevolezza di aver partecipato a un’impresa prodigiosa. Così iniziano a riversarsi sul ponte, giorno dopo giorno. Immagina contadini, mercanti, ubriaconi, pezzenti, bambini, soldati, ragazzi, pope, rabbini, imam, artigiani, messaggeri, funzionari, ribelli, sognatori, innamorati, infelici, oziosi, ambiziosi, disillusi, indaffarati che camminano, marciano, siedono, giocano, fumano, osservano, pensano, sognano, festeggiano, soffrono, mangiano, bevono, discutono, confabulano, muoiono sul ponte. Api affaccendate intorno a un alveare che sembra indistruttibile, immutabile, superiore alle vicende umane.

Nei quattro secoli seguenti, la kasaba e i suoi abitanti si adattano ai cambiamenti introdotti dall’occupante di turno, i turchi prima e gli austriaci poi, e quando non subiscono i colpi della Storia si difendono da malattie e calamità naturali o fanno tesoro dei brevi periodi di pace e benessere. E il ponte è sempre lì, muto testimone degli eventi.

Eppure, quel ponte che credevano indistruttibile è stato danneggiato e riparato più volte. Tra il 1914 e il 1915 tre archi furono bombardati e ricostruiti. E nemmeno la Seconda guerra mondiale lo ha risparmiato. Di sangue, poi, la kapija ne ha visto scorrere parecchio, come di corpi senza vita gettati nella Drina le sue arcate.

Dal particolare all’universale

Il ponte sulla Drina si potrebbe catalogare come “romanzo storico”, ma Andrić, che non amava gli schemi narrativi, preferì definirlo “romanzo della storia”.

È affollato di personaggi. Lo scrittore si sofferma su alcuni di loro, ne racconta le vicende, ne indaga i pensieri. Ogni vita è legata al ponte e a un preciso momento storico; ogni vita concorre a formare un mosaico che è nel tempo e fuori da esso; ogni vita è raccontata con equanimità, partecipazione, comprensione. Andrić è un cantore dell’animo umano.

Sì, il mondo è immenso anche di giorno, quando la vallata di Visegrád vibra sotto la calura e quasi si sente il rumore del grano che matura, quando la kasaba, sparpagliata intorno al verde fiume, chiusa dalla linea regolare del ponte e dai neri monti, sembra esplodere nel suo biancore. Ma è di notte, solo di notte che il cielo si anima e si infiamma rivelando l’immensità e la grande energia di quel mondo in cui l’essere umano si smarrisce e non sa più dove andare né cosa desiderare o fare. Solo allora si vive realmente, con serenità e a lungo; solo allora non ci sono più parole che impegnano per tutta la vita […] Di notte tutto è libero, infinito, anonimo e muto.

L’interesse per l’individuo, di qualsiasi religione, etnia ed estrazione sociale, lo porta ad ampliare lo sguardo su ciò che è universale. La sua attenzione oscilla ininterrottamente dalla realtà interna del singolo a quella esterna della kasaba, del Paese, del mondo, dell’umanità, in un gioco di matrioske, dipendenti l’una dall’altra.

Non c’è un’unica visione del mondo. Ogni personaggio ha la propria e la esprime nel modo che gli è più congeniale. Nessuno ha la Verità in tasca. Sembra che Andrić dica: le differenze non vanno ignorate né annullate, ma la convivenza è possibile. Con l’uso della ragione.

Come si fa a tenere insieme un amalgama simile? Come ha fatto Andrić a inserirlo in un romanzo dalla struttura così salda e coerente? Non aveva un compito facile davanti a sé.

Il ponte sulla Drina è il primo romanzo di Andrić, scritto durante la Seconda guerra mondiale, a Belgrado, dove si era ritirato temporaneamente dalla vita pubblica1. Seguirono, negli stessi anni, La cronaca di Travnik2 e La signorina. Aveva però al suo attivo poesie, racconti, recensioni e traduzioni.

Lento, complesso, vigoroso, da assaporare senza fretta, con quel sussurro orientaleggiante da Le mille e una notte che affiora dalle descrizioni della vita sul ponte, dalle storie di alcuni personaggi e dalle pagine dedicate al mito, facendo da contraltare al realismo del romanzo.

A lettura ultimata ci ho ripensato per giorni. Mi capita ancora di rileggere alcuni passaggi, come il dialogo tra Glasinćanin e Stiković o quello tra Galus e Bahtijarević:

Ma spesso penso che il progresso tecnologico e la pace relative abbiano permesso nel mondo una sorta di tregua, generando un’atmosfera particolare, artificiosa e irreale, in cui una classe di persone, la cosiddetta “intelligencija”, può dedicarsi in piena libertà al divertente, interessante, ozioso gioco delle idee e delle “concezioni sulla vita e sul mondo”. Ognuna di esse è una sorta di serra dello spirito, con un clima artificiale e una flora esotica ma senza il minimo legame con la terra, il vero, duro suolo sul quale camminano ogni giorno le masse degli esseri viventi. Voi pensate di poter discutere sul destino e sull’impiego di queste masse nella lotta per raggiungere nobili fini che vi prefiggete per loro, ma in realtà I meccanismi che girano nelle vostre teste non hanno nulla a che vedere con la loro vita né con la vita in generale. A questo punto il Vostro piccolo gioco si fa pericoloso, o almeno può diventarlo, per gli altri come per voi stessi […] Con teorie come le vostre si appaga soltanto l’eterno bisogno dell’uomo di crearsi illusioni, si lusingano le sue vanità e si finisce per ingannare se stessi e gli altri.

Andrić conosce la storia, comprende la natura umana e ha gli occhi ben aperti sul presente. Spinge a riflettere, a uscire dalla rassicurante zona di comfort. Suggerisce analisi, presenza, ascolto, consapevolezza. E compassione.

Non ho mai visitato la Bosnia, eppure a Višegrad mi sembra di esserci già stata. Forse perché mi sono riconosciuta e immedesimata tante volte nella variegata umanità il cui respiro impregna le pagine del romanzo? O perché ogni descrizione è un inno ai sensi?

Che Andrić racconti un’atroce violenza fisica o una gaia giornata estiva sulla kapija, le sensazioni correlate sono così vivide da indurre a una partecipazione totale alle pene altrui3 o un ardente desiderio di convivialità e condivisione. E pur non avendo mai bevuto caffè turco sulla kapija, sotto le luci rossastre del giorno che muore, si ha l’impressione di averlo fatto almeno una volta nella vita.

Sono due ragioni valide, ma insufficienti. Manca un elemento. Che sia l’universalità a cui tende il romanzo a portare la storia narrata su un piano slegato dal tempo e dallo spazio, un luogo neutrale in cui Storia, città, Paese, scrittore, personaggi e lettore si incontrano quasi fondendosi?

Višegrad e il ponte dopo Andrić

Oggi il ponte Mehmed Paša Sokolović è patrimonio UNESCO e Višegrad meta di pellegrinaggi letterari. Negli anni Novanta, però, durante la guerra in Jugoslavia, la cittadina conobbe un’ondata di violenza che causò la morte di circa 3000 persone4e il ponte subì dei danni.

  1. Dopo la Prima guerra mondiale aveva intrapreso la carriera diplomatica.[]
  2. Andrić era nato nella cittadina bosniaca di Travnik e trascorse l’infanzia a Višegrad, affidato alle cure degli zii.[]
  3. La vicenda e l’orribile fine di Radisav, per esempio, un cristiano ribelle vittima delle autorità turche, mi ha procurato un dolore quasi fisico costringendomi a fare delle pause nella lettura, tuttavia penso sia uno dei punti più alti del libro.[]
  4. Nel 2014, il comune di Višegrad decise di cancellare la parola genocidio dal monumento che ne ricorda le vittime posto nel cimitero musulmano Stražište.[]

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4 commenti

Martina 13/11/2020 - 3:36 pm

Ciao,
complimenti per il commento al libro.
Anche io l’ho scoperto molto tardi: quasi cinque anni fa l’ho preso per caso in libreria, mi avevano attirato il titolo e la sinossi in quarta di copertina ( fra l’altro ho la vecchia traduzione dove, da quanto ho capito leggendo qui “kapija” era tradotto con “porta” e quasi vorrei procurarmi la nuova ). L’ho letto durante l’estate, con calma ( è un libro che comunque richiede tempo ) e l’ho adorato tanto che è diventato uno dei miei libri preferiti.
Dà uno spaccato delle sofferenze di una terra in cui hanno convissuto per secoli etnie e culture diverse, delle tensioni fra esse e delle tragedie che le rendeva unite; mi ha anche affaascinato come, di tanto in tanto passasse ad assumere un tono fiabesco raccontando miti e leggende e riuscendo ad essere così più cose insieme senza perdere la sua unità strutturale.
Dispiace anche a me vedere quanto poco sia conosciuto e il fatto che non si studi a scuola credo sia dovuto ad una sorta di lontananza culturale (in fondo non si può studiare tutto), ma potrebbe essere sicuramente più noto. Eppure fa piacere vedere che piano piano riesce a farsi strada… 🙂

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Katy Poppins, seduta con in mano una tazza e un libro aperto davanti a lei
Caterina 16/11/2020 - 6:31 am

Ciao Martina, grazie per essere passata da queste parti e aver condiviso le tue riflessioni sul libro. È impossibile non amarlo. Ultimamente mi pare di notarlo un po’ di più in giro (su Instagram più che altro) e ne sono molto felice. I programmi scolastici sono troppo serrati per permettere a certi libri di essere considerati, è vero. Eppure bisognerebbe cominciare a dare spazio anche ad altre letterature. La letteratura è uno strumento potente, anche per comprendere mondi distanti dal nostro. Chissà, magari un giorno… 🙂

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Armando 20/08/2020 - 5:10 pm

Non conoscevo Il ponte sulla Drina. Un amico mi ha consigliato e lo sto leggendo e gustando lentamente..sono a pagina 100…..quando ho finito riscrivero’ …..ciao

Rispondi
Katy Poppins, seduta con in mano una tazza e un libro aperto davanti a lei
Caterina 21/08/2020 - 3:31 pm

Ciao Armando, grazie per il commento! Spero ti piacerà 🙂

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