In un villaggio del Ghana circondato dalla giungla il giovane Ryszard Kapuściński (1932-2007) parla della sua terra natale a degli indigeni radunati intorno al fuoco. Come ritrarre fedelmente il proprio Paese? Se lo chiede nel reportage che dà il titolo a Giungla polacca, pubblicato nel 1962, edito in Italia da Feltrinelli (2014) e tradotto da Vera Verdiani. Egli sa che non è possibile, perché nonostante gli sforzi “ne resterà sempre fuori qualcosa, la cosa più importante e fondamentale“.
Quello che avevo descritto non era il mio paese. Cioè: la neve e il fatto che non avessimo colonie erano veri, però non erano niente: niente di quello che sappiamo, niente di quello che, anche senza rendercene conto, ci portiamo dentro e che costituisce il nostro orgoglio e la nostra disperazione, la nostra vita, il nostro respiro e la nostra morte. […]
A eccezione del primo, Esercizi di memoria (scritto nel 1985), gli altri venti testi raccolti nel libro raccontano la Polonia del dopoguerra dominata dal comunismo sovietico, in particolare il periodo successivo alla morte di Stalin (1953). I loro protagonisti vivono in campagne e piccoli centri abitati, qualche volta a Varsavia. È gente umile per lo più, ma anche insegnanti, ingegneri, un paramedico, un artista; gente di tutte le età.
Un’umanità variegata, volenterosa o indolente, fiduciosa o disillusa, in attesa di un futuro migliore, della grande occasione, dell’amore, di una lavatrice o di una ferrovia sul limitare del bosco. C’è chi si accontenta e chi è insoddisfatto, chi è sempre in movimento e chi non è mai uscito dal proprio villaggio. Sono vite che non fanno rumore, e nemmeno la Storia; semmai ne subiscono i colpi di coda.
La scrittura di Kapuściński è essenziale, cattura i sensi, crea atmosfere surreali, spiazza il lettore con uno stile più vicino alla letteratura che al reportage. Tuttavia, anche se alcune storie mi hanno colpita, non riesco a scrollarmi di dosso l’impressione di un mondo dagli orizzonti grigi e opachi nel quale si muovono figure altrettanto grigie e opache, spesso sfuggenti, quasi piatte, di cui a fine lettura non mi è rimasto quasi niente.
Quando scrive Giungla polacca Kapuściński ha trent’anni, fa il giornalista già dal 1951 e non ha ancora iniziato a lavorare come corrispondente dall’estero per l’agenzia PAP. Nell’arco della sua lunga carriera ha viaggiato molto, raccontato guerre, rivoluzioni e persone attraverso reportage e opere tradotte in varie lingue.
Se non fosse stato per il viaggio che vorrei fare in Polonia quest’anno, non mi sarei avvicinata a Kapuściński partendo da Giungla polacca, ma avrei dato la precedenza ad altri titoli. Consiglio questo libro soprattutto a chi è interessato alla Polonia, perché è una testimonianza di come vivevano i polacchi nel dopoguerra sotto il comunismo1. Lo consiglio, inoltre, a chi ama Kapuściński e vuole esplorarne gli esordi.
- Quando il Paese si chiamava Repubblica Popolare di Polonia ed era a tutti gli effetti uno stato satellite dell’ex URSS.[↩]
4 commenti
Kapuscinski è uno dei miei autori di viaggio preferiti, ma devo ammettere che questo libro non l’ho mai letto. A tutti gli effetti ho iniziato ad amarlo proprio con Ebano e Imperium (e Shah-in-shah). Terrò presente il tuo consiglio.
Imperium sarà il prossimo, poi Ebano, Shah-in-shah (perché mi interessa l’Iran) e In viaggio con Erodoto. Questi quattro li leggerò sicuramente.
Se per caso leggi Giungla polacca, poi fammi sapere le tue impressioni sul libro. 🙂
🙂 E’ sempre un piacere leggerti!
Grazie Jessica! (uh, mi ha fatto arrossire!) :*