Un romanzo che prova a dare voce a una figura dimenticata della storia.

Arrivata in Massachusetts dalle Barbados con il marito John Indian per servire il reverendo Samuel Parris, Tituba fu una delle tre donne con cui, nel 1692, iniziarono i processi alle streghe di Salem. Di lei si sa poco. La prima autrice a occuparsi della sua storia fu la scrittrice afroamericana Ann Petry, in un libro per l’infanzia del 1955, Tituba of Salem Village, a cui seguì anni dopo quello di Maryse Condé (1934-2024), scrittrice e giornalista francese originaria della Guadalupa, che alla schiava accusata di stregoneria provò a restituire una voce, immaginandone la vita con il romanzo Moi, Tituba sorcière… pubblicato nel 1986 (uscito in Italia nel 1992 con il titolo Io, Tituba strega nera di Salem per i tipi di Giunti e ripubblicato nella collana Le chiocciole nel 2019).

Sentivo che in quei processi alle streghe di Salem, che avrebbero fatto colare tanto inchiostro, che avrebbero eccitato la curiosità e la pietà delle generazioni future e sarebbero apparsi a tutti come la più autentica testimonzianza di un’epoca credula e barbara, il mio nome non sarebbe apparso che come quello di una comparsa senza interesse. Qua e là si sarebbe fatta menzione di “una schiava orginaria delle Antille che, verosimilmente, prativaca il vudu”. Non si sarebbero preoccupati né della mia età né della mia personalità. Sarei stata ignorata.
A partire dalla fine del secolo sarebbero circolate petizioni e sentenze che avrebbero riabilitato le vittime e restituito alla loro discendenza beni e onore. Io non sarei mai stata tra quelle. Condannata per sempre, Tituba!
Nessuna biografia attenta e ispirata alla mia vita e ai miei tormenti! A questa futura ingiustizia, più crudele della morte, mi ribellavo!

Io, Tituba strega nera di Salem — Maryse Condé

Condé mescola fatti inventati a fatti realmente accaduti e persone realmente esistite, inserendo stralci dell’interrogatorio nella parte relativa al processo di Salem. La Tituba di Condé narra la sua storia con ironia e autoindulgenza. È una figura piena e sfaccettata, a cui la vita toglie molto più di quanto le offra. È ingenua, passionale, impulsiva, compassionevole e non rinuncia mai a godere del poco che può renderla felice, dimostrando una libertà interiore fortemente in contrasto con le catene invisibili che limitano la vita delle persone bianche con cui entra in relazione.

Sotto l’ala protettrice di Man Yaya, una donna anziana che la accoglie presso di sé quando a sette anni rimane orfana, impara a conoscere le erbe, a guarire, a essere tutt’uno con la natura e con il mondo invisibile, a compiere sacrifici. Utilizza le sue conoscenze per fare del bene, ma quando il bene fatto le si ritorce contro capisce che per sopravvivere deve accusare a sua volta e raccontare quello che i suoi aguzzini vogliono sentirsi dire.

Copertina del libro Io, Tituba strega nera di Salem di Maryse Condé.

Nella realtà la testimonianza di Tituba fu una delle più lunghe1. Dopo aver scontato quindici mesi di prigione a Boston, tornò davanti alla corte, ma la giuria si rifiutò di incriminarla. Venne rilasciata, perché qualcuno la comprò pagando il costo della sua “pensione” (chi stava in prigione infatti doveva pagarsi la permanenza come si fa in albergo) e di lei, da quel momento, si persero le tracce. Nel romanzo l’acquirente è un’altra figura marginalizzata, un mercante ebreo vedovo e con molti figli.

Il romanzo di Condé è diretto e alcune scene sono piuttosto crude. Il finale è amaro, come se per certe vite non ci fosse via di scampo dal dolore e dalla violenza. Amarezza a parte, c’è però in Tituba un lato fresco, giocoso, fanciullesco, che sembra avvertire chi legge di non prenderla troppo sul serio. E verso la fine del romanzo questo elemento è particolarmente evidente, perché il dramma si tinge di una teatralità venata di umorismo che è quasi disorientante. Non so se giochi a favore della protagonista o le tolga qualcosa, ma l’ho trovato interessante.

Mi ha colpito inoltre l’incontro fra Tituba e una donna di nome Ester, avvenuto in prigione. La personaggia inserita da Condé nella storia sarebbe la Hester Prynne de La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne. Nathaniel Hawthorne, tra l’altro, era nato proprio a Salem nel 1804 e un suo antenato, John Hathorne, fu uno dei giudici del processo che coinvolse anche Tituba2.

Cos’è mai una strega?
Sentivo che nella sua bocca la parola aveva un accento di obbrobrio. Come mai? Che significava? La facoltà di comunicare con gli invisibili, di conservare un legame costante con gli scomparsi, di curare, di guarire, non è forse una grazia superiore fatta per ispirare rispetto, ammirazione e gratitudine? Di conseguenza la strega, se si vuol chiamare così colei che possiede una simile grazia, non dovrebbe forse essere vezzeggiata e riverita anziché temuta?

Io, Tituba strega nera di Salem — Maryse Condé

Risorse

Un altro libro su Tituba è Tituba, Reluctant Witch of Salem: Devilish Indians and Puritan Fantasies di Elaine G. Breslaw (1996), una delle fonti usate per il video di Black Gems Unearthed che ti lascio qui sotto, dedicato ai luoghi di Tituba e ai processi alle streghe di Salem.

  1. Fonte: https://www.smithsonianmag.com/history/unraveling-mysteries-tituba-salem-witch-trials-180956960/[]
  2. Fu probabilmente per prendere le distanze dal suo avo che lo scrittore aggiunse una W al suo cognome.[]

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